Un piccolo passo avanti nei diritti delle donne in Italia è stato sancito dalla Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo il 7 gennaio scorso.
Il tema è il cognome dei figli, che da “sempre”, in Italia, si trasmette in linea maschile (per indicare il cognome si diceva infatti “patronimico”). Così, i genitori non possono chiedere di registrare il figlio all’anagrafe con il cognome materno, perché la normativa italiana non lo consente.
Al figlio può essere attribuito qualsiasi nome di fantasia (da una ricerca sui nomi erano emersi “Milkana”, “Nanctlaveva”, che significa “non ti volevo”) ma non un cognome diverso da quello del padre.
Da anni, periodicamente, qualcuno denuncia questo problema e si rivolge ai tribunali, non riuscendo però ad ottenere risultati utili.
Con il passare del tempo i giudici sono diventati sempre più sensibili a questa discriminazione e, se da un lato hanno dichiarato l’impossibilità di cambiare la normativa esistente con una sentenza, dall’altro hanno più volte sollecitato l’intervento del legislatore.
Ora l’intervento sembra non essere più procrastinabile, come ha affermato la Corte Europea dei diritti umani, sanzionando l’Italia perché non ha ancora risolto questa forma di violazione della parità dei diritti.
Tanti sosterranno che è un dato puramente formale, altri diranno – si dice in questi casi- “ ci sono cose più importanti”.
Non si dubita che ci siano problemi più gravi da risolvere. Tuttavia, se andiamo oltre le banalizzazioni, forse dobbiamo riconoscere l’importanza di questo riconoscimento.
Il cognome è un simbolo, che esprime la continuità dei valori, delle tradizioni, della storia della famiglia, e insieme a questi ultimi definisce un’appartenenza.
Riconoscere anche alla madre la possibilità di tramandarlo non è in realtà cosa da poco. Soprattutto se pensiamo alla discriminazione che hanno subito le donne sotto il profilo ereditario, perché “non continuavano il cognome di famiglia”